ristrutturazione del debito

Può accadere che a seguito di una crisi economica settoriale, piuttosto che per difficoltà contingenti e momentanee o, ancora, a causa di una crisi economica generale quale quella sanitaria in corso, l’attività d’impresa attraversi un momento di sofferenza e l’imprenditore non sia più in grado di far fronte alla sua esposizione debitoria nei confronti di fornitori e finanziatori.

Gli esiti di simili crisi possono essere estremamente diversi, da quello radicale del fallimento, con la cessazione definitiva dell’impresa e tutti i riflessi negativi che ne conseguono (non da ultimo, la perdita di posti di lavoro), al suo superamento grazie all’impiego di strumenti diretti ad agevolare l’uscita dell’impresa dal periodo di difficoltà e a consentire la prosecuzione dell’attività con rientro graduale dall’esposizione debitoria aziendale a salvaguardia dei creditori.

Un importante e duttile strumento cui può fare ricorso l’imprenditore per risolvere la propria crisi, impedendo azioni cautelari ed esecutive e, al medesimo tempo, alleggerendo i propri oneri e preservando le risorse finanziarie necessarie per il rilancio dell’azienda, è dato dagli accordi di ristrutturazione del debito, tema centrale del diritto d’impresa.

L’accordo di ristrutturazione del debito

Mezzo di risanamento a cui l’impresa in crisi ricorre per di ridurre l’esposizione debitoria e assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria, l’accordo di ristrutturazione del debito consiste in una procedura negoziale, ovverosia in un accordo tra l’imprenditore e tanti creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti, “certificato” dalla relazione di un professionista abilitato, il quale attesti la veridicità dei dati e l’attuabilità dell’accordo stesso.

In altre parole, l’imprenditore e il ceto creditorio concordano le modalità con le quali si procederà alla ristrutturazione dell’esposizione debitoria, prevenendo lo stato di insolvenza o rimuovendolo se già in atto.

Si tratta sostanzialmente di un istituto di natura privatistica che, grazie all’omologa da parte del Tribunale, assume un parziale contenuto giudiziale (una sorta di “terza via” definita da parte della dottrina come una procedura “preconcorsuale” di gestione della crisi d’impresa).

Lo scopo di tale procedura è, come si è visto, quello di consentire il salvataggio dell’impresa e di sanare la crisi, garantendo ai creditori che non aderiscono all’accordo il soddisfacimento integrale del loro credito.

Nel caso in cui si faccia ricorso a un accordo di ristrutturazione, la gestione dell’impresa rimane integralmente in capo all’imprenditore, assistito, nel caso in cui ne faccia richiesta, da alcune fondamentali tutele (come il blocco delle azioni esecutive e cautelari) che gli consentano di operare esclusivamente in vista del risanamento.

In pratica, l’accordo raggiunto con i creditori prevederà la modifica delle condizioni originarie di un prestito o di un debito (tasso di interesse, scadenze, divisa, periodo di garanzia) per alleggerire l’onere dell’impresa.

Generalmente vengono previste dilazioni di pagamenti, solitamente accompagnate da rinunce totali o parziali agli interessi o anche ad una parte del capitale, oppure emissione di nuove azioni o titoli di debito, in modo da coinvolgere i creditori nella partecipazione societaria.

Il contenuto dell’accordo con i creditori aderenti, anche di crediti tributari e previdenziali, è liberamente determinabile, mentre a quelli non aderenti si deve assicurare l’integrale pagamento nei termini fissati dalla legge.

Per facilitare la sottoscrizione di tali accordi l’impresa può fare una richiesta di preaccordo (o proposta di accordo) ottenendo l’applicazione anticipata delle tutele e vedendosi assegnata un termine per depositare la documentazione necessaria.

Altro elemento interessante è la possibilità di accedere a nuove risorse finanziarie per l’esecuzione del piano (c.d. finanza ponte).

L’accordo di ristrutturazione del debito, peraltro, rappresenta un fondamentale strumento cui può ricorrere anche chi è escluso dall’istituto del fallimento ex art. 2221 c. c. (piccoli imprenditori ed enti pubblici), ai quali, pertanto, qualora versino in gravi difficoltà economiche, è assicurata la possibilità di usufruire di una procedura che consenta loro di ottenere la liberazione dai propri debiti attraverso un rimodulato piano di rientro del proprio passivo.

La disciplina

L’accordo di ristrutturazione dei debiti è disciplinato dall’art. 182 bis della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942 n. 267), che prevede che “L’imprenditore in stato di crisi può domandare, depositando la documentazione di cui all’articolo 161, l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, unitamente ad una relazione redatta da un professionista, designato dal debitore, in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d) sulla veridicità dei dati aziendali e sull’attuabilità dell’accordo stesso con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nel rispetto dei seguenti termini: a) entro centoventi giorni dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti a quella data; b) entro centoventi giorni dalla scadenza, in caso di crediti non ancora scaduti alla data dell’omologazione. L’accordo è pubblicato nel registro delle imprese e acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione.

La domanda di accesso alla procedura

Alla procedura in esame si può accedere con due vie alternative:

  • presentando al tribunale istanza di ammissione corredata della documentazione necessaria (domanda diretta);
  • chiedendo al tribunale di fissare un termine entro il quale presentare l’istanza e i relativi documenti (c.d. pre-accordo).

1.     La domanda diretta

Per poter procedere all’istanza di ammissione alla procedura è necessario presentare contestualmente la seguente documentazione:

  • le scritture contabili e fiscali obbligatorie;
  • le dichiarazioni dei redditi e i bilanci di esercizio degli ultimi tre esercizi o anni, ovvero, se la l’attività d’impresa ha avuto una minor durata, quelli relativi all’intera vita dell’impresa;
  • una relazione sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria aggiornata, anche in formato digitale;
  • uno stato particolareggiato ed estimativo delle attività del debitore;
  • l’elenco nominativo dei creditori e l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione;
  • l’elenco nominativo di coloro che vantano diritti reali e personali su cose in suo possesso e l’indicazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto;
  • un’idonea certificazione sui debiti fiscali, contributivi e per premi assicurativi;
  • una relazione riepilogativa degli atti di straordinaria amministrazione compiuti nei cinque anni precedenti.

2.     La fissazione di un termine o pre-accordo

Nel caso in cui, invece, il debitore si rivolga al tribunale per chiedere al giudice che fissi un termine entro il quale presentare la domanda di ammissione alla procedura di accordo di ristrutturazione dei debiti, unitamente alla domanda di fissazione del termine occorrerà presentare:

  • i bilanci d’esercizio relativi agli ultimi tre esercizi o, se l’attività non è soggetta all’obbligo della redazione del bilancio, le dichiarazioni dei redditi dello stesso periodo;
  • l’elenco nominativo dei creditori con indicazione dei relativi crediti e delle cause di prelazione.

La restante documentazione richiesta dalla legge deve quindi essere depositata unitamente alla domanda di ammissione alla procedura entro il termine fissato dal giudice che, solitamente, è compreso tra i trenta e i sessanta giorni.

Crisi d’impresa e gruppi di società

Situazioni di crisi possono colpire anche società appartenenti a gruppi societari, società controllate o la stessa holding.

In tali casi, le soluzioni cui ricorrere per fronteggiare il rischio di un coinvolgimento dell’intero gruppo potranno essere di diverso tipo, in relazione alla gravità del dissesto e alle prospettive di recupero.

Nel caso in cui la crisi coinvolga una società controllata, la capogruppo, in forza delle informazioni privilegiate e della visione globale di cui dispone sulla struttura del gruppo e le peculiarità commerciali delle società che lo compongono, sarà chiamata a un contributo significativo per individuare una soluzione, in adempimento dei doveri di corretta gestione nell’ambito dell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento che gravano sulla stessa ex art. 2497 Codice Civile.

La capogruppo, infatti, è l’unico soggetto in grado di calibrare correttamente le interconnessioni tra le attività delle società componenti il gruppo al fine di individuare prospettive di risanamento o, nel caso in cui la crisi non fosse recuperabile, ipotesi di liquidazione.

Solo la capogruppo, infatti, è in grado di attribuire il corretto valore all’unità economica e alle interconnessioni preesistenti all’interno del gruppo, elementi che dovranno essere attentamente soppesati per individuare qualsiasi prospettiva di ristrutturazione.

Allo stesso modo, qualora si decidesse per la liquidazione della controllata insolvente, il bagaglio informativo e la visione globale di quella che è stata la sua “vita commerciale” pongono la capogruppo in grado di intervenire prontamente, essendo in possesso di tutte le informazioni necessarie e con pieni poteri derivanti direttamente dalla sua posizione di controllante.

In via esemplificativa, si potranno realizzare le seguenti tipologie di interventi:

  1. promozione, da parte della capogruppo, di un piano di risanamento o di un accordo di ristrutturazione;
  2. risanamento della società controllata mediante finanziamenti diretti da parte della capogruppo. Il rischio in questo caso potrebbe essere quello di compromettere la stabilità della capogruppo, con conseguente scontento di soci di minoranza e creditori, nel caso in cui l’operazione si dovesse tradurre in uno squilibrio finanziario;
  3. imposizione, da parte della capogruppo, di interventi mediante finanziamenti alla controllata in sofferenza da parte delle altre società del gruppo in bonis. Si tratta del massimo grado di coinvolgimento del gruppo, ove il rischio è dato da una propagazione della crisi all’intero gruppo qualora l’intervento superasse il limite dei vantaggi compensativi;
  4. liquidazione della controllata qualora non vi siano prospettive di superamento della crisi.

Nel caso in cui fosse la stessa holding a versare in una situazione di crisi si potrebbe ricorrere a:

  • adozione di un piano di ristrutturazione del debito della capogruppo;
  • imposizione di finanziamenti in favore della capogruppo da parte delle società controllate. Il rischio è dato dalla possibilità di una compromissione dell’equilibrio economico-patrimoniale di tutto il gruppo;
  • riassorbimento di alcune controllate (si pensi al caso in cui il grcouppo sia nato da una scissione della capogruppo che, ad esempio, abbia creato una controllata per la gestione del solo patrimonio immobiliare strumentale o non strumentale). Tale operazione, che potrebbe attuarsi attraverso la fusione per incorporazione della società immobiliare del gruppo, potrebbe essere richiesta dagli istituti di credito quale ulteriore garanzia in caso di accordo di ristrutturazione del debito bancario, in modo da far rientrare gli immobili nel patrimonio della controllante.